
Il diversity management in Veneto. La ricerca Unipd - Fòrema
17.10.2024
Il diversity management è l'insieme delle politiche adottate da un'azienda per promuovere la diversità all'interno dell'ambiente di lavoro. Nel mese di aprile 2024, 90 aziende su 630 interpellate (di cui il 41% appartenenti al settore metalmeccanico) hanno condiviso le loro pratiche di diversity management rispondendo a un questionario sui temi della gestione delle risorse umane, del welfare e del work-life balance (equilibrio tra vita privata e lavoro), della formazione aziendale e della certificazione UNI PDR 125:2022, altrimenti conosciuta come certificazione di parità di genere.
La ricerca è stata condotta da Claudio Riva, docente del Dipartimento Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università degli Studi di Padova, coordinatore e responsabile scientifico, e dalla borsista di ricerca Vittoria Benfatto, e ha coinvolto l'Ufficio studi di Fòrema, nella figura di Roberto Baldo, responsabile di progetto e direttore del centro studi.
L'obiettivo dell'indagine è quello di evidenziare le tendenze attuali delle aziende in materia di gestione della diversità analizzando i processi di gestione delle risorse umane, il welfare, la tutela della genitorialità e la formazione aziendale.
Alle origini del lavoro di ricerca vi è un contesto in cui i persistenti divari di genere presenti nelle organizzazioni, l’affidamento dei ruoli apicali e i differenziali retributivi e contributivi sono un aspetto critico fondamentale per il benessere lavorativo dei e delle dipendenti, nonché per la sostenibilità organizzativa. In questo senso, il diversity management rappresenta un approccio di gestione delle risorse umane che può fare da driver per il cambiamento nelle organizzazioni. Approfondire le pratiche e le politiche di diversity management attualmente in uso nelle imprese costituisce di fatto un primo passo verso una comprensione concreta delle esigenze e dei fabbisogni organizzativi in tema di genere e inclusione.
Secondo la ricerca, il 70% delle aziende del campione analizzato non fa uso di procedure di selezione gender neutral (pratiche neutrali rispetto al genere dei soggetti), perché non sono mai state prese in considerazione (75%) o perché non vengono ritenute utili. Tra i settori in cui la resistenza verso queste procedure sembra essere più diffusa vi è quello metalmeccanico (48%). L’80% delle aziende non usa procedure gender neutral per la valutazione delle prestazioni; tra queste il 37,8% non è interessato a implementarle in futuro, mentre il 42,2% ritiene che queste procedure potrebbero essere utili, ma attualmente non ne fa uso.
Dai dati emerge che vi è una diffusione limitata di queste procedure a fronte di una più diffusa consapevolezza della loro importanza, probabilmente dovuta a resistenze culturali legate alla percezione di una non-utilità di tali procedure, soprattutto in aziende con una percentuale di donne inferiore al 20%. Anche nella valutazione delle prestazioni vi è un tasso di resistenza molto alto, che si apre a un margine di miglioramento che potrebbe generare effetti positivi anche in altre fasi della vita organizzativa delle persone come progressioni di carriera maggiormente equidistribuite o un minor tasso di turnover aziendale.
Il 61% delle aziende del campione analizzato non offre servizi di sostegno alla genitorialità, mentre tra le aziende che dispongono di tali servizi i più diffusi sono i giorni extra di congedo (17%) o politiche di affiancamento al rientro (12%). I servizi di welfare più diffusi tra le aziende sono i buoni pasto/spesa (72%), i buoni benzina (47%) la flessibilità oraria (47%) e le convenzioni medico-sanitarie (38%).
I dati mostrano come non sia ancora diffusa una visione della maternità e della paternità come risorse per l’azienda, da tutelare e supportare attivamente tramite servizi e pratiche. Inoltre, il welfare offerto dalle aziende mostra una propensione a servizi integrativi di supporto al reddito, piuttosto che di supporto alla persona.
Sul fronte della formazione, l’80% delle aziende del campione analizzato non ha svolto alcuna formazione specifica sui temi del genere, della diversità e dell’inclusione perché il tema non è stato ritenuto rilevante (46%), per mancanza di risorse (15%).
Inoltre, il 64,4% delle aziende del campione analizzato non fa uso di un linguaggio inclusivo, e sono piuttosto eterogenee per settore e dimensione aziendale, mentre nei contesti con una percentuale di donne superiore al 60% aumenta la diffusione di un linguaggio inclusivo. Tra le aziende del campione, il 48% usa un software whistleblowing (tradotto letteralmente software “fischietto”, si tratta di uno strumento che permette ai lavoratori e alle lavoratrici di segnalare le attività illecite svolte durante i processi lavorativi) per la raccolta anonima delle segnalazioni, mentre il 27% delle aziende non dispone di canali con cui i dipendenti e le dipendenti possono segnalare eventuali episodi di violenza subiti.
«Nel panorama delle aziende coinvolte nell’indagine, la diffusione del diversity management appare parcellizzata e limitata, nonostante non manchino aziende meritevoli che si distinguono dalle altre – sintetizza Claudio Riva –. Vi è una tendenza generale a riconoscere l’importanza di un modello organizzativo più attento ai lavoratori e alle lavoratrici, che tuteli l’equità di trattamento e l’inclusione sociale, nonostante di fatto questa consapevolezza rimanga ancora solo su un piano prevalentemente teorico per la maggior parte delle aziende. La cultura aziendale resta uno degli aspetti chiave su cui è fondamentale lavorare per innescare un cambiamento e renderlo permanente, evitando che le azioni e i processi messi in campo abbiano un impatto solo su un piano formale, correndo il rischio di trasformarsi in casi di pinkwashing aziendale, ovvero azioni apparentemente solidali messe in atto dalle aziende a favore delle donne».