di Sandro Chignola - Il termine deriva, con notevole continuità, dal greco demokratía, composto di demos (popolo) e krátos (potere, superiorità, nel senso di averla vinta in una prova di forza, come una battaglia o un assemblea). Secondo la teoria aristotelica delle forme di governo (Pol., III), la D. rappresenta il governo del popolo (ovvero di tutti coloro che, maschi liberi e adulti, godono dei diritti di cittadinanza), distinguendosi così dalla monarchia (il governo di uno solo) e dall'aristocrazia (il governo dei pochi). Più precisamente, la D. - secondo una partizione che distingue tre forme buone e tre forme corrotte di governo - rappresenta il tipo degenerato (perché il potere viene esercitato a vantaggio dei poveri, e quindi di una parte soltanto della polis) della politía (il governo della maggioranza). Platone stesso, peraltro, aveva in precedenza assegnato alla D. - definita «governo del numero» o «della moltitudine» - una connotazione negativa. Essa sorge quando i poveri, vinta la guerra civile, dividono a condizioni di parità con i nemici sopravvissuti, il governo e le cariche pubbliche, istituendo così un regime politico caratterizzato dalla licenza (Resp. 557a). Questa accezione svalutativa del termine lo apparenta in qualche modo a quello di DEMAGOGIA (da dhmos, popolo e agw, guido), a quella prassi politica, cioè, che si fonda sulle masse, sul peso del numero e sugli istinti irrazionali della moltitudine, eccitati e assecondati allo scopo di consolidare il potere di chi governi. L'accezione negativa del termine demagogia viene, in questo senso, fondata da Aristotele.
Nelle Leggi Platone istituisce in seguito una bipartizione tra la monarchia e la D. come tipi puri di tutte le forme di governo. Allo stato persiano, che incarna la prima, viene opposta la città ateniese, archetipo della D., ed entrambi vengono criticati. Il primo per eccesso di autorità, il secondo per eccesso di libertà. E' nel corso del sec. II a. C. - e al di fuori della teoria, in cui dominante resterà per secoli la tripartizione classica delle forme di governo - che il termine D., recuperando la propria affinità semantica a quello di isonomía, assume il significato generale di «costituzione libera». Contrapposto a monarchia, D., che passa a identificare tanto le città democratiche, quanto molte oligarchie, diventa parzialmente sinonimo di libertà. Nella latinità la parola non compare. Cicerone, tuttavia, riprende la logica del concetto greco opponendo nel De Republica due modalità differenti della civitas popularis: nel primo caso la forma di governo è libera e giusta (populus iustus et moderatus); nel secondo domina la licenza e la parte economicamente più debole della popolazione (furor multitudinis licentiaque). Nel medioevo il termine, che non compare nelle fonti giuridiche, né nel vocabolario politico-istituzionale del tempo, diventa un topos filosofico-letterario, replicato dalle fonti colte dell'epoca (Tomaso, Nicola d'Oresme, Marsilio da Padova, Enghelberto di Admont) a partire dalle matrici classiche greche. Dal momento che le lotte all'interno dello Stato territoriale sono lotte per il riconoscimento di diritti ed immunitates, e non hanno direttamente in vista mutamenti di costituzione o di regime politico, il concetto di D. continua ad essere impiegato per indicare, esclusivamente nelle disquisizioni dotte, un tipo costituzionale antico e non si politicizza sino al secolo XVIII.
E' dalla tradizione romanistica che emergono invece due concetti destinati ad incrociarsi con quello di D.: il concetto di sovranità popolare o di traslatio imperii (Ulpiano, Dig. I, 3, 32) secondo cui è il popolo, detentore originario della sovranità, colui che conferisce il potere al principe; e l'idea di repubblica come forma costituzionale della D., opposta al potere monocratico del monarca (Machiavelli). E' così che vengono inaugurate la distinzione, operata da Bodin e vitale almeno sino a Kant, tra formae imperii e formae regiminis, ovvero tra titolarità ed esercizio della sovranità; e l'istituzione di una quasi sinonimicità tra il concetto di D., progressivamente riscattato dalla propria origine corrotta, e quello di repubblica. Nel corso del sec. XVIII il termine esce infine dalla lingua dotta, e passa a designare un concetto di battaglia del lessico politico. D. diventa il modello di espressione della politicità originaria dell'uomo e il modello di un regime politico repubblicano radicalmente alternativo alla monarchia. Per Fauchet (Sermon sur l'accord de la Religion et de la liberté, 1791), le leggi della D. sono state date agli uomini da Dio stesso. Con i giacobini il concetto, indipendentemente dalla forma di organizzazione del potere democratico, che può essere tanto quella della D. diretta quanto quella della D. rappresentativa, designa la modalità originaria di espressione della sociabilità politica come «vertu publique» e come «amour d'égalité» (Robespierre).
L'esito infausto dell'esperimento politico-democratico giacobino segna la ricezione negativa del termine almeno sino al 1848. Il termine D. viene associato al Terrore e, nell'area linguistica anglo-americana, il termine D. compare raramente con accezione positiva (Paine, Fox e, in misura minore, Jefferson, Jackson). Soltanto in epoca successiva il termine verrà rivalutato. Il processo di costituzionalizzazione del potere e la stabilizzazione delle istituzioni rappresentative renderanno possibile il trasferimento del concetto di D. dall'armamentario politico giacobino alle forme giuspubblicistiche dello Stato di diritto a impianto liberale e a sovranità popolare. Emancipato dall'ideale antico e repubblicano, il principio democratico diventa modello possibile per l'organizzazione costituzionale di grandi Stati. Il concetto di D. non viene più, così, adoperato come concetto dotto o come indicatore terminologico per classificazioni scolastiche, ma impiegato per la descrizione di una forma costituzionale che, affermatasi in Stati periferici (la Svizzera, i Paesi Bassi), evidenzia negli USA la propria potenza, presentandosi come modello del futuro anche per l'Europa. Definito in termini di tendenza, il concetto di D. non verrà più impiegato staticamente, e diventerà piuttosto un indicatore di movimento, cioè del processo storico di costituzione della modernità liberale e della sovranità popolare rappresentativa (Tocqueville, De la démocratie en Amérique, 1835).
Del concetto di D. vanno pertanto progressivamente perduti: a) l'ancoramento alla D. pura o diretta; b) la connessione necessaria con i piccoli stati o con formazioni sociali semplici; c) la contrapposizione tradizionale con gli ordinamenti aristocratici o monarchici. Attraverso la rielaborazione liberale (Constant, Tocqueville, Mill), il concetto di D., liberato dall'impraticabile ideale della repubblica antica e riarticolato a partire dal moderno concetto di libertà negativa (in base al quale non la partecipazione diretta al processo delle decisioni politiche, ma la libertà individuale dalle interferenze dello Stato diventa ideale da affermarsi positivamente), incrocia le istituzioni rappresentative dello Stato liberale. Nella concezione liberale della D., la partecipazione al potere viene assicurata dal godimento dei diritti politici. In base a tale principio, il diritto di fare le leggi non spetta direttamente al popolo, riunito in assemblea, ma a un corpo ristretto di rappresentanti eletti dai cittadini con diritto di voto. Si ha pertanto D. diretta quando il popolo esercita direttamente il suo sovrano potere (ad es. nel caso di un Referendum); e D. indiretta, rappresentativa o parlamentare, quando il popolo, in condizioni d'uguaglianza e di riconoscimento costituzionale dei suoi diritti fondamentali, esercita il potere sovrano attraverso i propri rappresentanti. In entrambi i casi, comunque, il concetto di D. si contrappone frontalmente al concetto di AUTORITARISMO, nella misura in cui il primo venga riferito ad una costruzione del rapporto politico dal basso e partecipata, e in cui predominante sia l'elemento del consenso e non quello dell'autorità. Con l'affermarsi dello Stato liberale, la democraticità diventa una caratteristica fondamentale ed irrinunciabile della legittimità delle istituzioni politiche. Essa richiede che siano riconosciuti i diritti fondamentali di libertà che rendono possibile la partecipazione politica, ed innesca, nella storia costituzionale del secolo XIX, una parabola di progressiva apertura ed estensione degli istituti della rappresentanza (ampliamento dei diritti elettorali; abbassamento delle barriere censitarie; voto alle donne; suffragio universale) e di moltiplicazione degli organi e delle cariche elettivi (dalla camera dei rappresentanti al Senato, al Presidente della Repubblica, agli enti locali).
Pressoché sinonimico a quello di «diritti» il concetto di D. verrà inoltre adoperato, a partire dalla metà del sec. XIX, per indicare il radicamento sociale del processo dell'uguaglianza. Ormai garantito a livello politico, il principio costituzionale dell'uguaglianza dei cittadini (di fronte alla legge e come sostrato dei diritti fondamentali) dovrà essere garantito anche al livello dei diritti sociali (salute, abitazione, condizioni di lavoro, assicurazioni sociali) degli individui. Negli anni '60 del sec. XIX la «democrazia sociale» diventa un concetto di uso comune nel senso di un collegamento tra movimento sociale e democrazia, che rendesse possibile un superamento della democrazia meramente «politica» o «borghese». Incrociandosi con le aspettative di riforma del movimento operaio e con il radicalismo delle organizzazioni politiche socialiste (Socialdemocrazia), il concetto di D., declinato in senso sociale, verrà esteso sino ad indicare, prima in prospettiva filosofico-storica o utopistica, poi come modello di concreta organizzazione costituzionale del potere, la forma politica di una democrazia diretta in cui il popolo, abolita la proprietà privata e lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, possedesse collettivamente i mezzi di produzione (dalla Comune parigina alla Rivoluzione bolscevica). Questo concetto «sostanziale» di D. porterà ad una critica del concetto formale di D. espresso dai sistemi liberali.
Divenuto progressivamente ingrediente irrinunciabile per l'autodefinizione di qualsiasi movimento politico (liberali, socialisti e conservatori, superano le perplessità originarie, e, a partire dal sec. XX non possono non dirsi democratici), con D. si è sempre più inteso non un'ideologia, bensì l'insieme delle regole procedurali, universalmente valide, per la costituzione del governo e per la definizione delle decisioni politiche vincolanti per l'intera comunità. La D. configura così definitivamente l'orizzonte materiale (riconoscimento dei diritti) e formale (quadro delle regole) della modernità politica. Ed è questo ciò che ha reso la D. compatibile con dottrine politiche antinomiche l'una rispetto all'altra. Nella teoria politica contemporanea, la definizione di D. tende a risolversi in quella della definizione di «universali procedurali» generici, che, accolti come regole del gioco, permettano il libero e pacifico svolgersi della competizione sul mercato politico.
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